Intervista a Mario Campanino:

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Tratto dalla rubrica "Arte-Voci Negate" della E-zine Vuoto Negativo, sito Arsnova-Associazione Culturale Telematica, bimestre gennaio/febbraio 1997.

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Mario, so che nella vita ti occupi di musica... tu che non ti definisci "scrittore", come vivi l'esperienza della scrittura?

Vivo la scrittura come un mezzo per risparmiare parole. Ogni giorno sento e dico centinaia di parole, ma spesso si tratta di molto rumore per nulla. Le parole sono un gioco che può essere di verità ma anche d'altro, sono cose leggere e spesso dette con leggerezza. Non dico che si debba rifiutare il gioco quotidiano delle parole, ma è importante riconoscerlo come tale. Scrivere per me significa dire poche parole cercando di lasciare un segno profondo, incidere, fare un gesto breve, anche delicato ma che risuoni dentro a lungo. Forse anche per questo scrivo poco e mai cose lunghe. Non so dirlo meglio e soprattutto non so se quello che scrivo possa risuonare in qualcuno. Sarebbe bello.
Scrivere qualche volta mi parla di me, e può essere importante, ma non credo che ci si possa "conoscere" attraverso le parole: la scrittura è solo una delle nostre tante immagini, uno dei tanti specchi in cui ci riflettiamo, non siamo "noi". Questi specchi spesso abbiamo bisogno di portarceli appresso in tutta la nostra quotidianità, ma non ci credo troppo.

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Che cos'è per te l'arte, e chi è l'artista?

Domanda micidiale a cui non so rispondere. Ho solo qualche idea.
Primo. Esistono degli uomini che costruiscono degli oggetti. Con il legno, con i suoni, con il marmo, con il cemento, con le parole e via dicendo. Prima dell'artista esiste dunque, secondo me, l'artigiano.
Secondo. Esistono, in alcune civiltà, un numero indefinito di condizionamenti che designano alcuni di questi oggetti di artigianato come "arte". Un dato importante è che questi condizionamenti e criteri non sono gli stessi per tutte le civiltà.
Terzo. Spesso i condizionamenti che hanno "fatto" l'arte nelle varie civiltà sono stati dettati da ragioni ignobili di ricchezza e di potere. D'altro canto non vi è nulla di "naturale" in questi condizionamenti, nel senso che noi non li abbiamo trovati ma piuttosto, direi, inventati.
Quarto. Quanto detto nel secondo e terzo punto mi induce per ora a non credere più che esista l' "arte": esistono degli uomini che costruiscono degli oggetti e vari modi di vivere questi oggetti.

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Ora leggerò alcuni passi tratti da un tuo scritto che trovo particolarmente interessante e rivelatore: L'uomo in aria...
"Quando sono sulla terra non mi sento fuori posto. Vedo le cose intorno e sopra di me e mi sembra naturale. Non è lo stesso quando sono in aria. Vedo le cose sotto di me e mi sembra che non dovrei stare qui. Ma io sono nato così, e ormai è inevitabile che finisca quasi sempre in alto... Sarebbe diverso se potessi avere tutto di fianco. Invece le mie cose sono quassù, a mezz'aria, e io con loro.
Non sono solo. Altre persone vivono più o meno come me, e tutti insieme siamo sistemati nello spazio in modo stranamente fisso e ordinato, in contrasto col nostro crescere e diminuire, con la nostra fisionomia mutevole, con la nostra pelle elastica. Mi resta, in questa anormale regolarità, la sensazione di essere trattenuto troppo distante dalla terra...
Uomo e cose imprigionati in uno spicchio d'aria. Corpo senza riferimenti, piccolo, sempre più piccolo man mano che sale nell'aria sempre più grande...
Il sole sorge dal campo verde. Quando lo vedo comparire sopra la città so che prima già riscaldava l'erba.
E' là che vorrei avere casa; per poter risalutare ogni giorno lo stesso ciliegio, e non vedere da quassù tanti alberi lontani di cui non conosco il nome e la storia. Per sentirmi unito al piccolo prato, e non osservare panorami smisurati. Per essere alla mia altezza, coi piedi affidati al suolo, a respirare con gli stessi polmoni della terra, sotto l'ampiezza del cielo e la leggerezza dell'aria in cui oggi mi trovo come sospeso racchiuso in un guscio di noce."
Mario, da queste tue parole sembra emergere un forte senso di alienazione, paura di frammentazione, rimpianto per una dimensione perduta... vorresti parlarci di questa situazione di "diversità"? Quando ne hai preso coscienza per la prima volta?

Permettimi di risponderti con una cosa scritta non molto tempo fa:

"Non dire più niente
stasera,
non ricordarmi che le parole
non sono
ciò che significano,
fammi sentire
che tu
io
e quello che vuoi dirmi
non ci siamo
mai separati."

Ecco. E' bello sentirsi uniti a ciò che si incontra, è bello "sentirsi" ciò che si incontra e si vuole amare. Il problema non è definirsi persona, individuo, numero di carta d'identità o "essere": non definirsi, anzi, non distinguersi, è il desiderio. E' sentirsi acqua del fiume. Non parte del fiume ma "il" fiume. E' una cosa che si può solo sentire e che non saprei spiegare altrimenti. Ne "L'Uomo in aria" io l'ho tradotta nel desiderio di contatto con la terra, ma non equivale a quello che solitamente si dice "essere amanti della natura". Ogni cosa che ci sta intorno è il fiume, basta solo considerarla così. E poi, ogni albero e ogni uomo hanno una storia, e conoscere queste storie può avvicinare. Ma credo anche che la conoscenza sia un cammino e mai un punto d'arrivo. Così mi piace pensare che ognuno di noi avrà poche storie, di alberi o di uomini, da conoscere e da respirare intensamente, che potrà ascoltare e di cui potrà parlare. Ma avremo anche molte altre storie che saremo costretti a guardare solo dall'alto e da lontano, e di queste la maggiore conoscenza sarà forse tacerne.

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Nel breve componimento "Njepi", che come tu spieghi s'ispira alla festa balinese del silenzio, traspare un senso d'angoscia... cito le tue parole: "Tanti gridi meccanici tutti uguali mi rassicurano, in fondo; di un grido unico e irripetibile, invece, avrei paura... Ripercorre lo stesso spazio infinitamente piccolo; la sento -la madre- affannarsi per rimuovere il silenzio dalle cose in cui si è insinuato, per cogliere l'essenza del tempo nell'unico modo che conosca, attraverso la sensazione di sentirselo sfuggire di mano... E' la vita in cui si parla".
Vorresti riprendere questo tema per i nostri lettori?

In "Njepi" parlo del terrore della quotidianità intesa come giro del tempo su se stesso, giro che non porta in nessun luogo. E come se tu avessi in mano un bicchiere d'acqua e un cucchiaino: puoi girare e rimescolare quelle molecole quanto vuoi, il bicchiere non si sposta, non percorre nessuna "strada" (ma puoi chiamarla anche "fiume"). Questo tipo di tempo mi spaventa, è un tempo pieno di parole-rumore, leggere e fastidiose. La differenza sta esattamente nel sentirsi acqua di bicchiere o acqua di fiume: la prima "sta" caoticamente a ripercorrersi ogni giorno, la seconda "va", spesso anche caoticamente, ma va. E poi, tu stessa prima hai citato il tema della separazione: l'acqua di bicchiere è "separata", l'acqua di fiume è "a contatto".

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In un tuo frammento, intitolato "Male", dici: "non sono certo di essere sincero neppure quando penso"...

Quando si riflette lo si fa per parole, e le parole sono trappole. E sono rumore. Sapere che si può giocare anche con le parole di dentro, questa consapevolezza fa male, fa sentire molto piccoli, spinge all'umiltà del silenzio. In questo senso è più vero lo spazio vuoto, bianco, spazio senza pensieri in cui andare a sentirsi.

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Riporto una tua poesia:

Riposo

Lasciarsi
spiegare
le cose dalle cose.

Ci parli di questi versi?

Mi chiedi spiegazioni su una poesia. Anche a me capita spesso di cercare le ragioni di alcune cose, ma credo che in fondo la verità delle cose non possa essere "detta" ma solo vissuta, con lo scorrere del tempo e stando a contatto con le cose stesse. Se una poesia mi fa sentire qualcosa che non capisco bene, allora io posso prenderla, metterla in un angolo della mia vita, del mio pensiero, respirarla lentamente e aspettare che continui a parlarmi. E' come una storia d'amore. Si incontra una persona e si sente qualcosa, spesso senza capire. Allora si può cominciare a pensare, a chiedersi e chiedere spiegazioni, oppure si può prendere per mano questa persona e camminarle a fianco, ascoltandola e ascoltandosi con semplicità. Rispetto alla fatica di interrogarle, questo lasciare che le cose parlino da sé mi sembra molto più adeguato alle nostre forze, e poi forse le risposte a molte domande, la conoscenza profonda di qualcuno - è una mia sensazione - si raggiungono solo in questo modo.

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All'origine del tuo bellissimo racconto "La pioggia - in cui non si muore in ordine di apparizione" , pubblicato in questo numero della rubrica Arte - Voci Negate, vi è per caso un'esperienza vissuta?

Sì, alcuni anni fa. Un'esperienza di morte ma anche di amicizia, delle difficoltà dell'amicizia, dello stare vicini, e in seguito del ricordo-nostalgia di quella vicinanza. Tante cose. Per esempio l'ossessione delle immagini, una cosa nemmeno tanto originale. Qualche anno dopo ho fatto un breve viaggio in Tunisia (da solo) in cui mi sono sparato sei rullini da 24! E una delle prime persone a cui sono andato a mostrarle è stato Enzo! Certo le immagini sono pericolose per chi non le riconosce e possono infastidire chi è costretto a giocarci anche quando avrebbe voglia di andare un po' più al "nudo". Ma anche il gioco delle immagini può qualche volta portarti un sorriso, e credo che dopotutto anch'esso sia acqua del fiume.

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So che scrivi anche poesie... pure in molte di esse vi è la presenza della morte. Se permetti, vorrei proporne alcune ai lettori e chiederti di commentarle:

Un chiaro sole rosa ha spezzato in due
la linea
dell'orizzonte
e si insinua
lieve nella terra
di cui trafigge
il cuore.

Continuo a curarmi
nell'attesa
che passi
questo tempo
dolce che mi avvicina
alla morte.

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Letto 431

Quanta vicinanza
tra
la mia gioia e il tuo dolore.

Avverto
più crudele
d'ogni altra cosa
l'immenso

attrito

tra i moti della vita

e la paralisi

della morte.

Tema difficile. La morte è quella cosa che ti costringe ogni volta a ripensare tutta la vita daccapo. Vita e morte esistono nello stesso momento, e proprio perché non si lasci prevaricare da quello della morte è importante coltivare il sentimento della vita. Ho sempre avuto l'idea che tra vita e morte ci debba essere un certo rispetto reciproco. La consapevolezza della morte non deve guastare la dolcezza e la vitalità del tempo che siamo; nell'altro senso la vita non deve disturbare, con il suo movimento e i suoi rumori, l'immobilità e la quiete della morte.

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Mario, hai mai pensato di fare pubblicare i tuoi scritti?

A dire la verità no. Ho sempre considerato queste "cose" soprattutto come miei movimenti, immagini, specchi interiori. Mi riferisco soprattutto alle poesie. A pensarci ora sento che da un lato mi farebbe piacere, anche se provo una certa sensazione di nudità nell'orientare verso l'esterno delle immagini così intime.

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Quali sono le tue letture preferite?

A quattordici anni divoravo Dostoevskij, oggi adoro Verne. In generale mi piace la scrittura umile, consapevole, franca. Se poi è anche bella, se c'è un bel gesto, meglio ancora. Oggi mi sono un po' stancato delle parole e ci sono due cose che anche la lettura ha contribuito ad insegnarmi: leggere lentamente e leggere meno.
Se vuoi qualche altro nome ti dico i primi che mi vengono in mente: Milan Kundera, García Márquez, Rimbaud, Baudelaire, più avanti Shakespeare, un po' di Moravia, filosofia e psicologia qua e là, il buon Bertrand Russel, qualche libro scientifico, soprattutto astronomia e cosmologia. Poi ci sono alcune cose che vado a rileggere di tanto in tanto: qualche poesia di Baudelaire o di Neruda, e poi Calvino, alcuni racconti. Amo la poesia perché è qualcosa che vive nel momento in cui la leggi, come una canzone. "L'infinito" di Leopardi, per esempio, è musica pura, forma breve dotata di un'architettura magnifica, di un ritmo e di un suono che non puoi descrivere con altre parole che non siano quelle parole. Il piacere è cantarsela ogni tanto, o ancor di più che qualcuno te la canti: "e il naufragar m'è dolce in questo mare".

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