Intervista ad Andreina Bert

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Tratto dalla rubrica "Arte-Voci Negate" della E-zine "Vuoto Negativo" dell'Associazione Culturale Telematica Arsnova, bimestre luglio/agosto 1997.

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L'ospite di questo numero della rubrica Arte-Voci Negate è la scrittrice Andreina Bert, autrice di una serie di racconti intitolata "La materia dei sogni", ovvero, "appunti sulla schizofrenia della vita quotidiana". Non si tratta della sua prima opera -l'autrice ha scritto infatti numerosi romanzi, per il momento ancora inediti, dei quali ci parlerà fra breve- ma è il primo libro che pubblica, e di quest'opera ho il piacere di proporvi il pungente racconto "Noi e il nostro corpo": la storia di una donna di carriera che ha fondato la sua esistenza su falsi valori, su scelte dettate dall'egoismo. Ma ora, facciamo la conoscenza de "La materia dei sogni" attraverso le parole dell'autrice, che ci spiegherà da quali esperienze sono nati i suoi racconti e che cosa rappresenta per lei la scrittura intesa come forma di autoanalisi, di arte-terapia...

Dopo un lungo periodo di anoressia mentale che segnò in modo particolare la mia adolescenza, scrissi un romanzo che descriveva, attraverso episodi metaforici, le fasi di questa mia malattia.
Lo sottoposi in seguito allo scrittore Italo Calvino che, in una lunga lettera, ne analizzò le varie parti, concludendo: "Continui, legga e lavori. Legga molto la Mansfield che, in un certo modo di vedere le cose è insuperabile per levità e acutezza".
Lessi la Mansfield e scrissi ogni volta che i problemi della vita mi facevano sentire la necessità di un'autoanalisi. Scrivere per me è stato questo, nel corso degli anni. Una specie di arte-terapia. Perciò ho spesso abbandonato i miei manoscritti. Erano parti di me che si staccavano come gli stadi dei razzi interplanetari.
Alla fine degli anni Sessanta scopersi Ronald Laing, il grande psichiatra britannico. Anche lui mi fu di grande aiuto. Particolarmente "L'io diviso", il suo studio sulla scissione della personalità. Vorrei citare alcune delle sue frasi che mi sono molto vicine:
"Ecco perché voglio ripetere che il nostro stato 'normale' e 'ben adattato' non è, molto spesso, che una rinuncia all'estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà".
"Allora dobbiamo pensare che l'uomo irreale abbia imparato così bene a nascondersi proprio in conseguenza di questa estrema vulnerabilità".
"Ma tutto ciò non viene fatto per un desiderio positivo di fare le cose che a detta degli altri sono buone: si tratta invece di un conformismo negativo nei confronti di norme proprie, suggerito dal timore di ciò che potrebbe accadere se si fosse per una volta se stessi."
"Per tutto questo tempo aveva pensato di trovarsi, per ripetere le sue stesse parole (che sono anche le parole di Heidegger), sul 'confine dell'essere': con un solo piede dalla parte della vita e senza nemmeno avere diritto a tanto". (R.D.Laing: "L'io diviso")
In questi brevi sketch, totalmente immaginari, ho tentato di descrivere lo sdoppiamento fra realtà e fantasia che caratterizza buona parte degli esseri umani. Come diceva Prospero ne "La Tempesta" di Shakespeare: "Noi siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni: e la nostra breve vita è circondata da un sonno."
Questi brevi spaccati di realtà hanno per me un particolare significato, poiché dopo la morte di mio marito avevo perso completamente l'auto-ironia e non riuscivo più a scrivere. Leggendo dei minimalisti americani come Carver, qualche anno dopo, ho pensato che potevo scrivere dei bozzetti un po' comici, per ritrovare il "sense of humour" che temevo perduto e che considero filosofia di vita...

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Andreina, la tua vita è stata così piena di cambiamenti che dici ti pare quasi impossibile poterla descrivere. A questi avvenimenti hai cercato di reagire scrivendo accanitamente dei romanzi che sono rimasti impubblicati. Vorresti parlarci di queste tue opere inedite?

Ho incominciato a scrivere intorno agli undici anni i miei primi diari, che ancora mi fanno sorridere, e che purtroppo diventarono cupi e pessimisti fra i quattordici e i quindici anni, durante un periodo di seria anoressia nervosa. Dopo di allora, quando da sola sono uscita dal male (una madre iper-protettiva può creare gravi scompensi), ho incominciato a scrivere racconti ed a viaggiare per studio, allontanandomi dall'invadenza materna.
I primi racconti sono di tipo surreal-allegorico, intitolati "La vita vista da me". Li mandai pomposamente a Einaudi che mi rispose gentilmente quale stile (quello impressionistico) mi si adattava meglio. Avevo poco più di sedici anni.
A diciannove riprovai con Calvino. Si trattava di un romanzo che descriveva gli stati d'animo di una ragazza gravemente anoressica, contrapposta a due amiche, una sicura di sé, l'altra più angosciata e più vittima delle circostanze della protagonista. Il passaggio attraverso il mondo della moda, degli spiritualisti, delle montagne, dei giovani intellettuali, era visto un po' con l'occhio smagato del giovane Holden. Il senso di morte, o di un cambiamento totale di vita, erano sempre presenti e il titolo: "Qualcosa deve avvenire" sottolineava l'aspettativa delle varie ragazze, di un elemento visibile e determinante, di una specie di Godot.
A ventidue anni, cioè un anno dopo il matrimonio, scrissi: "Fra giorno e notte", una saga famigliare di ricchi proprietari terrieri nobili e non, ambientata nel Pinerolese. Da questo intreccio sto attualmente traendo un racconto lungo.
Anche in "Una vana parola", scritto a ventisei anni, c'è il rapporto fra due importanti famiglie borghesi e il senso di soffocamento di una giovane sposa che si rende conto via via che il matrimonio è stato semplicemente il passaggio da un clan ad un altro clan, con protocolli e regolamentialtrettanto ferrei che quelli della famiglia d'origine.
Nel 1968 scrissi "Come la luna", un romanzo che si svolge su due piani. La parte in prima persona è la realtà, la parte in terza persona è lo stesso episodio vissuto nella fantasia della protagonista. Citazioni qui e là e interviste in stile Godardiano piacquero ad alcuni, meno ad altri. Anche quel romanzo non fu mai presentato ad editori.
Qualche anno dopo decisi di inventare una trama costruita con una ricca simbologia. Il romanzo era intitolato "La notte del Wezak" e si riferiva ad un evento soprannaturale (l'apparizione del Budda) che secondo alcuni esoteristi ha luogo ogni anno in una misteriosa valle del Tibet. In questo tomo immaginavo che dodici personaggi si ritrovassero casualmente in una sperduta Valle Valdese e che alla fine l'evento avesse luogo, ma fosse vissuto drammaticamente da uno di loro.
C'è una pausa durante la stesura di questo ponderoso romanzo, perché mentre lo scrivevo mio padre morì in un tragico incidente. Come per la morte di mio marito, che doveva avvenire sette anni dopo, vi fu un tempo di blocco in cui tuttavia scrissi per una rivista intitolata "Nuova società", per la rubrica "La desinenza in A", parecchi articoli sul problema delle donne e della famiglia.
Ripresa "La notte del Wezak" e sottoponendola come gli altri scritti ad amici universitari, ebbi risposte vaghe e riposi nei cassetti il frutto del mio lavoro. Non parlerò dei miei studi svolti in inglese su Virginia Woolf >e il suo gruppo, ma arriverò all'ultimo romanzo.
Scritto nel 1994 (durante la guerra in Yugoslavia) e riscritto varie volte. E' intitolato "La casa dalle stanze morte" ed in esso riappare la protagonista ex-anoressica di "Qualcosa deve avvenire". E' ormai ultra-cinquantenne e ritrova amicizie della giovinezza e del '68. I vari personaggi si confrontano in una trama un poco "gialla", in cui due morti improvvise, una avvenuta trent'anni prima ed una più recente, non convincono due dei protagonisti. La storia si svolge in una vecchia villa in vendita, e c'è il senso di distacco e di lutto che si prova quando si abbandona una casa piena di ricordi (vissuto da me in un caso analogo). Ci sono anche il rapporto con le giovani generazioni e la speranza che siano meno condizionate della mia.

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Hai mai pensato di partecipare a dei concorsi letterari per opere inedite, con questi manoscritti?

Sì, ho partecipato a due concorsi di scrittura "al femminile", uno del Comune di Segrate, in cui entrai in finale e fui per la prima volta pubblicata da Laura Rangoni, e uno in Provincia di Savona, in cui, oltre alla pubblicazione, ottenni un premio de "La Stampa" di Torino. Dopo di allora ebbi dalla Casa Editrice Laura Rangoni l'offerta di pubblicare dei miei racconti ed eventualmente certe poesie satiriche, che tuttavia tenni da parte.
"La materia dei sogni" è perciò il mio primo libro pubblicato, ma l'ultimo e il più breve di una serie di scritti che mi hanno aiutata a vivere fino ad oggi. Smettere sarebbe impossibile. Sono l'osservazione del mondo che mi circonda e l'immersione nella sfera della fantasia, che mi aiutano a superare gli ostacoli, le fatiche e anche le crisi più dolorose. So che da un lato sono stata quella che Virginia Woolf chiama "The Angel in the House", colei che è sempre pronta a sacrificarsi per la famiglia e che tenta continuamente di accontentare le esigenze degli altri, ma dall'altro lato un'altra me stessa è cresciuta all'interno di me, pensando che un giorno la sua parte creativa sarebbe stata libera di esprimersi ed avrebbe avuto il sopravvento. O forse, come dice Jean Paul Sartre in 'Les mots': "Pour que je me sentisse nécessaire il eût fallu qu'on me réclamat... Mais j'avais gardé le sentiment qu'on naît superflu à moins d'être mis au monde spécialement pour combler une attente."

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Questa rubrica è dedicata alle voci negate, negate non perché non degne di essere ascoltate, ma perché escluse dal sistema per ragioni di mercato, cioè quelle dei "grandi guadagni", facili ed immediati...
Andreina, so che hai proposto il tuo interessante romanzo "La casa dalle stanze morte" ad alcune note case editrici; vorresti parlarci di questa tua esperienza che illustra perfettamente i criteri con i quali operano i grandi nomi dell'editoria del Paese?

Le grandi case editrici italiane hanno vari sistemi per liberarsi dagli aspiranti scrittori. Se i "lettori" sono gentili, possono rispondere che il tuo libro non rientra nel loro programma editoriale o che ricercano esordienti più giovani, con linguaggio moderno e non convenzionale.
In due occasioni ho ricevuto una telefonata, sia da un lettore che da una lettrice. Entrambi mi hanno detto che avevano apprezzato il mio scritto, ma che la casa editrice non poteva arrischiarsi su nomi nuovi o sconosciuti. Nei due casi mi è stato fatto capire che la telefonata non era prevista dal loro lavoro, ma me la facevano per farmi sentire il loro apprezzamento e ciò mi ha fatto molto piacere e sono loro grata.
C'è un'ultima possibilità, ed è che non ti rispondano neanche con un rigo e questa, devo dire, è quella che ferisce maggiormente. E' più facile accettare una civile critica che il silenzio. Ma forse spesso si è cestinati senza essere letti, o dopo la visione frettolosa dell'incipit.
Ho sognato più volte di essere invitata ad un colloquio, magari per modificare qualche cosa, o parlarmi personalmente, ma non mi è mai successo.
Devo dire che i divi televisivi, i giornalisti e i politici, in Italia, hanno tutti un libro o due al loro attivo. Non so chi li legga. Ma così è.

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Andreina, nella breve nota biografica in quarta di copertina de "La materia dei sogni" si dice che sei nata "casualente" a Verona. In che senso?

Sono nata casualmente a Verona perché una delle sorelle di mia madre -moglie di un generale dell'esercito di stanza in quella città in quel periodo- aveva invitato la mia famiglia ad attendere il lieto evento, previsto fra l'agosto e il settembre di ormai più di cinquant'anni fa, a casa sua, dove mia madre poteva essere meglio accudita. Era già nato mio fratello. Del periodo vissuto a Verona, però, non ricordo nulla.

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So che, salvo qualche soggiorno-studio all'estero, sei quasi sempre vissuta a Torino, dove infatti hai ambientato i racconti de "La materia dei sogni". Vorresti parlarci della tua città, che purtroppo è stata recentemente colpita da una grave sciagura, di ciò che rappresenta per te e dei tuoi ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza che vi hai trascorso?

Torino è la città in cui mi sono formata, essa ama la discrezione e la mancanza di esibizionismo, tipici della mentalità torinese. Il Barocco piemontese, la facciata di Palazzo Madama opera di Filippo Juvarra e la cappella del Guarini, ora danneggiata da un incendio, sono fra le bellezze architettoniche della città che io prediligo. Per altri versi Torino può essere una città triste, spesso grigia, divisa in compartimenti stagno. Chi conosce, come me, ambienti musicali o artistici, universitari, intellettuali o borghesi di vario tipo, può trovarvisi a suo agio, ma può essere talvolta infastidito da certi convenzionalismi eccessivi...
Uno choc infantile? Il crollo della guglia della Mole Antonelliana dopo un tornado. Fra i ricordi vi sono la povertà del dopoguerra, quando si andava a scuola (le elementari) con un ceppo per la stufa e, tuttavia, la godibilità del Parco del Valentino, più sicuro di ora.
Un centro pulsante di Torino, per me, da quando ero ragazza, è il Centre Culturel Franco-Italien, ma anche altri centri linguistici che sono le mie "finestre sul mondo".
Le amicizie a Torino sono salde. Non è vero che i torinesi sono "falsi e cortesi". Dopo la vedovanza, proprio le persone più inattese, pazienti di mio marito, ad esempio, mi hanno dato una mano nel groviglio della burocrazia italiana (che è un incubo) evitando lo sfoggio di frasi banali e retoriche.
Tutto sommato, Torino, forse perché quando fa bello si vedono le montagne, è ancora una città vivibile, a cui ci si affeziona.

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Che cosa ci dici della tua formazione?

Dopo il diploma del Liceo Artistico, ho conseguito vari diplomi di università straniere, fra i quali quello di Grenoble e quello di letteratura dell'Università di Cambridge, quello dell'Alliance Française e quello denominato "Higher Proficiency" del Trinity College di Londra. Per motivi di studio ho soggiornato a lungo in Inghilterra, dove ho tuttora contatti di lavoro. A ventun anni mi sono sposata con un medico, ho continuato lo studio delle lingue iniziando quello del russo e del tedesco e cominciando la carriera di traduttrice per la Casa Editrice UTET.
Per quanto riguarda la mia formazione, essendo mio padre figlio di un pastore valdese, è di tipo protestante: notevoli i sensi del dovere, della solidarietà umana, dell'onestà e una buona dose di angoscia esistenziale di tipo Kierkegaardiano.
Il francese è stato la mia prima lingua dopo l'italiano, perché nelle valli valdesi è parlato tradizionalmente in famiglia e mia madre (nata a Cipro da famiglia cattolica) aveva tuttavia una nonna francese e non disapprovava il bilinguismo. L'inglese, che ho approfondito sul luogo, è stato scelto per la passione per la letteratura anglosassone a partire da Shakespeare.
Attualmente, dopo avere tradotto libri di saggistica per Feltrinelli ed infinite voci di enciclopedia per la UTET (La Musica, Il Digesto, La Storia ed altro) ho intrapreso lo studio dello spagnolo.

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Come vedi la posizione della donna nella società italiana?

La mia generazione è stata condizionata dai ruoli differenti che i genitori assegnavano ai figli. Nel mio caso, ad esempio, il fratello maggiore e maschio doveva farsi una posizione, avere successo nella vita. Mio fratello, infatti, è medico e scrittore di testi scientifici. Io, essendo la figlia, la secondogenita, dovevo invece sposarmi, avere dei figli e accudire i genitori nella vecchiaia. Gli studi, prima artistici e poi linguistici, anche all'estero, apparivano come un'estrosità eccessiva.
Oggi, grazie al cielo, le ragazze studiano e lavorano, e soprattutto condividono gli impegni del ménage col compagno. Tuttavia, in certi tipi di carriera, le donne sono ancora relegate a posizioni subordinate...

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Tu hai figli, Andreina?

Ho un figlio maschio che, alla morte di mio marito, colpito da un grave tumore, aveva solo sedici anni. Da quel momento me ne sono curata da sola accettando ogni tipo di lavoro, sempre nel campo linguistico. Ho collaborato a lungo ad una rivista turistica: il "Travel Trade Gazette", e per parecchi anni mi sono dedicata alla classificazione di libri musicali presso la Biblioteca del Conservatorio di Torino, pur continuando le mie traduzioni per la UTET. Ora mio figlio è laureato in Fisica, ha conseguito un dottorato in questa materia ed è sposato con una bellissima ragazza sud-americana, laureata in Storia dell'Arte.

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E quanto all'immagine della "mamma italiana", il suo ruolo all'interno della famiglia?

La "mamma italiana" è spesso iperprotettiva nei confronti dei figli e al tempo stesso esigente. In Italia vi sono ancora cinquantenni che vivono con la mamma. A sua volta la mamma è spesso a totale disposizione dei vari membri della famiglia, in modo vagamente ricattatorio, e manca di una vera e propria individualità, vivendo di luce riflessa all'ombra del marito e dei figli. Questo atteggiamento può diventare soffocante.

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Come occupi il tempo libero? Quali sono i tuoi passatempi preferiti?

Amo ancora dipingere e dedicarmi all'incisione. La copertina del mio libro, che rappresenta un angolo delle valli valdesi, è una mia piccola acquaforte. Amo anche molto la musica e sono iscritta da sempre ad una stagione di concerti: "L'Unione Musicale", ma talvolta seguo anche l'opera.
Da giovane ho cantato musica polifonica italiana (Palestrina e Monteverdi) con la Corale Universitaria e ho imparato ad amare Bach cantando nella Corale Valdese.
Adoro anche viaggiare.

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E i tuoi scrittori prediletti?

Difficile citare gli autori preferiti: naturalmente i grandi russi come Tolstoy o Dostojevskij, o gli straordinari francesi come Flaubert, Stendhal e Proust; tutto il periodo inglese del Bloomsbury Group, Virginia Woolf in testa; certi minimalisti americani, come Carver. Fra gli italiani vi fu il grande amore per Pavese, l'ammirazione per l'acutezza di Sciascia e per il rigore strabiliante di Primo Levi.

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Che cosa pensi dell'attuale panorama letterario italiano e dei nuovi scrittori emergenti?

Il panorama italiano contemporaneo appare piuttosto frazionato. Vi sono correnti di ricerca linguistica: vedi Baricco, Voltolini; altre di forte intimismo femminile, vedi: Marina Jarre, Nadia Fusini o la capostipite Lalla Romano. Poi c'è lo stile giovanilistico, vedi: Culicchia o Lara Cardella, o i romanzi dedicati alla memoria, di cui "Per violino solo" di Aldo Zargani è uno splendido esempio. Umberto Eco e Fruttero Lucentini sono ancora i capisaldi del romanzo tradizionale da leggere tutto d'un fiato.
Per il mio lavoro, però, leggo prevalentemente narrativa in inglese o in francese.

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Grazie, Andreina, per essere stata con noi. E' stato un piacere conoscerti!

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