Incontro con Giuseppe Cosco

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Giuseppe Cosco è nato a Catanzaro nel 1950 ma vive a Soverato (CZ).
Ipnologo ed esperto di training autogeno presta la sua opera in istituti, cliniche e nell'ambito della ricerca universitaria.
Ha pubblicato numerosi libri, ha collaborato e collabora tuttora con diversi giornali tra cui: "Cosmo", "Il Giornale dei Misteri", "Teologica", "I Misteri" e "Oltre la Conoscenza". Studioso di Esoterismo da oltre vent'anni, è considerato anche un esperto di tradizioni popolari.
Figura nella "Piccola enciclopedia dei medium e sensitivi", curata da Sergio Conti, per "Il Giornale dei Misteri".
Fra i libri pubblicati: "Manuale pratico di Grafologia","Fiabe in Calabria", "Psicologia e iniziazione nella fiaba di Pizzo", "Ansia e cancro", "Controrelazione sulle verità della medicina", "Individuo, malattia e medicina", "Storia segreta dell'Aids", "Il ritorno di Satana", "Esoterismi del XX secolo", "Politica, magia e satanismo", "Il serpente e l'arcobaleno".
Ha di recente portato a termine un nuovo lavoro, per ora ancora inedito, piuttosto critico nei confronti della medicina ufficiale: "Psicobiologia del cancro e Grafologia".

E' possibile contattare l'Autore al seguente indirizzo: gcosco@columbus.it

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IL SEGRETO DELLA CASA ROSSA (racconto)

"...un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo".
(Howard Ph. Lovecraft, I miti di Cthulhu, Cura e traduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Biblioteca Economica Newton, Roma 1995, pag. 62.)

Dopo la separazione da Anna, Giovanni se ne era andato a vivere in un appartamento alla periferia di Roma. Lì la sua attività di scrittore, negli ultimi tempi, era andata piuttosto a rilento e, recentemente, aveva subito una battuta di arresto. Non riusciva più a scrivere. L'editore, che gli aveva già versato un acconto dell'anticipo per il suo nuovo romanzo, reclamava con impazienza la consegna del lavoro finito. Per fuggire a questo assillo e a quello di Anna, che ancora lo tormentava coi ricordi, si lasciò convincere ad accompagnare un amico, per un breve soggiorno, in una cittadina dell'estremo sud dell'Italia.
Quei luoghi lo affascinarono. Vide, e ne fu sorpreso, posti incredibilmente belli, mari e boschi selvaggi e incontaminati, da cui irradiava un alone di magia. Provò come una sensazione di ritorno alle origini, di simbiosi con la natura. In uno di quei luoghi incantati, casualmente, gli capitò di vedere, nei pressi di un mare selvaggio dai colori vividi, una casa grande e antica. Era in vendita e il prezzo incredibilmente conveniente. D'impulso pensò che l'avrebbe acquistata e sentì un impeto di felicità fremergli nelle vene. Lì, ne era certo, avrebbe ritrovato l'ispirazione.
Ritornato a Roma prese contatti col proprietario, che era emigrato in Svizzera da diversi anni. La trattativa fu veloce. Si trasferì nella nuova abitazione una mattina di domenica. Era già stato qualche altra volta nella nuova casa, ma ora andava per viverci. Si sentiva elettrizzato. Nei pressi di Lamezia Terme uscì dall'autostrada e si diresse verso sud. Dopo alcune ore di viaggio si trovò in aperta campagna, ma in lontananza si scorgeva il mare. La strada iniziò a scendere in tortuose curve polverose. La vegetazione si interruppe, improvvisamente, dove iniziava la spiaggia. Il mare ottobrino spumava, rabbiosamente, sull'arenile. Ancora pochi minuti, che sembrarono un'eternità e, poi, ecco la casa. Due piani rosso acceso, a qualche centinaio di metri dal mare, con le tegole e sulle fiancate sei grandi finestre, un balcone e un pesante portone di legno, intarsiato a mano. Tutt'intorno erbacce e alcuni alberi. Lontano, il latrare di un cane si perdeva nel fragore del mare. La sera era scesa all'improvviso e si era alzato un vento umido e freddo, che scuoteva gli infissi delle vecchie finestre.
Giovanni sbatté la portiera dell'auto, si chiuse il collo del giaccone a vento e, in un baleno, ruotò alcune volte la chiave nella serratura e spalancò il portone, che richiuse alle sue spalle, dopo aver acceso la luce dell'ingresso. La vecchia casa padronale distava due ore buone dal paese più vicino. Per la prima volta, da quando l'aveva vista, gli apparve tetra e solitaria, ma non se ne preoccupò più di tanto. Un lungo ingresso portava a tre grandi stanze: un soggiorno, un salotto e uno studio. Sopra, attraverso una scala a chiocciola, si arrivava a due camere da letto, uno stanzone vuoto senza finestre e un capiente sgabuzzino. I mobili erano in legno robusto di noce. Alcuni vecchi oli e stampe d'epoca adornavano le pareti. I letti erano incorniciati da uno splendido ottone, con pomelli di ferro brunito. Nel salotto un confortevole camino rallegrava l'animo.
Uscì un paio di volte, per prendere le poche cose che aveva portato con sé, tutte stipate nel cofano della vecchia mercedes e le sistemò, >in fretta e alla rinfusa, sul tavolo e sul pavimento. Al grosso del bagaglio ci aveva pensato giorni prima con una ditta di traslochi. Si tolse il giaccone, lo lanciò su una sedia e, infreddolito, sistemò un po' di legna nel camino e la fece ardere. Si accese un grosso sigaro e tirò una lunga boccata, lasciandosi sprofondare nella poltrona. Lì, pensò, avrebbe organizzato la sua vita di scrittore, finalmente lontano dal caos cittadino.
Di colpo, gli ritornò in mente lo strano colore della casa. Quando gli era apparsa dinanzi la prima volta, dopo la lunga curva a gomito, era rimasto molto colpito da quel colore vermiglio, che, chissà per quali inconsce alchimie della mente, gli sembrò uguale al colore del sangue rappreso. Un brivido gelido gli salì lungo la schiena e sentì il cuore battere con violenza. Per un istante, ebbe l'impressione che gli avrebbe sfondato il petto. Presero a pulsargli anche le tempie e pensò che stessero per scoppiargli. Le premette forte con le dita e chiuse, per alcuni secondi, gli occhi. Quando il dolore divenne sopportabile si scosse, prese il sigaro, che si era quasi spento abbandonato sul posacenere, lo aspirò profondamente e soffiò il fumo acre nella stanza.
Improvvisamente, una specie di fruscio, o forse un sibilo, lo raggelò. Aveva udito qualcosa, come dei tonfi profondi, ma questa volta non era il suo cuore. Per una manciata di secondi trattenne l'aria per localizzarne la provenienza. Distinse, pure, un respiro greve e sommesso, che gli parve provenire da un punto indefinito della casa. Poi, silenzio. La legna, che ardeva nel camino, rapì la sua attenzione, ma, durò poco. Gli tornò alla mente quello strano racconto di cui era venuto a conoscenza, una delle volte che era venuto alla casa, prima di acquistarla. Era niente più che una diceria e riguardava il precedente inquilino. Un tipo strano e bizzarro, così gli era stato descritto da un vecchio e solitario contadino del luogo.
Un giorno di dieci anni fa quest'uomo era di colpo, letteralmente scomparso, come inghiottito dal nulla e non se ne era saputo più niente. Il contadino, quasi ottantenne, gli aveva raccontato che la casa l'aveva ucciso, poi, con gli occhi intrisi di terrore, gli aveva urlato di andarsene perché quel maledetto luogo divorava i suoi abitanti. Si scosse e si disse, senza accorgersi che stava parlando ad alta voce: <<Stupidaggini di un vecchio arteriosclerotico>>. Schiacciò il sigaro sul posacenere di radica, poggiato sul bracciolo della poltrona e andò a dormire.
Nel letto si sentì stremato e con una gran voglia di lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo. Le palpebre gli si chiusero subito e, mentre scivolava nel sonno o qualche istante dopo, udì un rantolo indefinito. Non capì da dove provenisse, era come un respiro greve e, poi, dapprima lievemente, ecco di nuovo i tonfi, simili al battito di un cuore. A volte i colpi si spostavano improvvisamente e sembravano prodursi in posti diversi, ora lontani, ora vicini. Avrebbe voluto alzarsi, ma era incapace di muoversi. Non capì più nulla e precipitò nella voragine di un sonno senza sogni. Al mattino rovistò tutto cercando, inutilmente, la spiegazione di quel fenomeno. Alla fine pensò che aveva fatto un brutto sogno. La notte seguente si addormentò subito e il sonno fu relativamente tranquillo.
Lo svegliò, a giorno inoltrato, una pioggia insistente, che batteva sui vetri. Aprì gli occhi e vide filtrare nella camera, dalle imposte schiuse, la luce pallida di un sole malato, che si era dovuta aprire uno spiraglio tra le nuvole. Un fascio luminoso si tuffò nello specchio del grosso mobile, a circa due metri dai piedi del letto e, chissà per quali strane traiettorie, si disegnarono figure sfocate e, tra le varie cose che si riflettevano, si delineò il volto dolente di un vecchio, dagli occhi malvagi. Giovanni lo fissò per un tempo imprecisato, poi, d'un tratto, sobbalzò e, con fatica, si mise a sedere sul materasso. Quel movimento scombinò le traiettorie e i riflessi e la diabolica presenza svanì. Nello specchio restò solo il suo volto bianco di spavento. Ripeté a se stesso, più volte, mentre si alzava, che era stata solo un'illusione.
Nei giorni che seguirono lavorò al libro. Il tempo passava ed ebbe, quasi sempre, la netta sensazione che quella casa, in qualche orribile modo, viveva. Ne sentiva, di tanto in tanto, l'alito gelido dietro la schiena e lo sguardo maligno spiarlo. Vide o gli sembrò di vedere, in certi momenti, immagini vaporose spostarsi velocemente e poi svanire, attraverso le mura dell'abitazione, con altrettanta velocità. Erano qualcosa di simile a quanto scriveva Lucrezio nel De Rerum natura: "Membrane leggere... che volteggiano nell'aria in ogni senso. E nel sogno come nella veglia sono queste stesse immagini che appaiono, gettando il terrore nei nostri spiriti...". Tutti quei fenomeni sembravano provenire ora dal soffitto, ora da sotto la pavimentazione, altre volte dalle mura. Era come se, in quella casa, si celasse una vita segreta terribilmente crudele.
La maggior parte di quei paurosi avvenimenti si producevano la notte quando era a letto, dopo che spegneva la luce. Non di rado ebbe la netta impressione, nella più fitta oscurità, di luridi e appiccicosi filamenti invisibili, che gli si attorcigliavano addosso, imprigionandolo come in una tela di ragno. Quando si liberava da quell'oppressione, accendeva terrorizzato la lampada del comodino; la testa gli martellava, la gola era secca, il respiro affannoso e sibilante e il corpo bagnato di sudore e tremante. Ritornato in sé non riusciva più a trovare riposo. Al mattino avvertiva sempre una profonda stanchezza.
Quella casa, ne era ormai certo, in qualche modo lo stava uccidendo. Si sentiva disperato e privo di forze. Era, pure, visibilmente dimagrito. Quasi ogni notte quel maledetto cuore riprendeva a battere, dapprima in modo tenue, poi, i tonfi diventavano assordanti. Si sentiva alle fine delle forze. Voleva andare via da quel luogo maledetto. Appena terminato il libro, ormai lo aveva deciso, sarebbe tornato a Roma. Era certo che, se fosse rimasto ancora lì, l'atmosfera della casa lo avrebbe ucciso.
Era il primo venerdì di novembre quando batté l'ultimo punto al suo romanzo. Si alzò stanco, ma soddisfatto e si versò del whisky, riaccese il sigaro, che si era spento e lo aspirò soffiando, tutt'intorno, ampie volute di fumo. Si buttò sul letto e decise che l'indomani avrebbe chiamato il suo editore, si sarebbero visti e avrebbe incassato il rimanente dell'anticipo. Fantasticava il successo troppo tempo atteso ed ora, forse, vicino. Era convinto di aver fatto un ottimo lavoro. Il suo romanzo, sicuramente, avrebbe trovato il favore della critica, almeno lo sperava ardentemente. Questo, per Giovanni, significava dare, finalmente, un taglio netto alle sceneggiature di fumettacci porno, che era costretto a scrivere per sbarcare il lunario. Si sentiva, per la prima volta, felice in quel luogo.
Improvvisamente, provò una sensazione penosissima: avvertì una fitta dolorosa al plesso solare e due mani che gli serravano la gola. Non riuscì a respirare per interminabili istanti. Quasi subito la presa si allentò. Emise una specie di urlo soffocato. L'invase una grande agitazione e avvertì, nettamente, che qualcosa di infernale era con lui nella stanza. La presenza minacciosa e invisibile ammorbò l'aria con esalazioni di umori putrefatti. Non aveva una idea precisa di cosa o chi potesse essere, ma vide, sprigionarsi dal nulla, una grande nuvola fosforescente, che gli si avvicinava minacciosamente. Gli sembrò di essere disteso su una schifosa fanghiglia, dai contorni indecisi. Cercò di alzarsi, ma affondava sempre di più. Il panico raggiunse il parossismo.
Da quella massa informe, si protesero, verso di lui, delle punte, sembravano viscide corna di lumaca. Quei prolungamenti, simili a gelatina trasparente, avanzarono, come rettili, fino ad appiccicarsi al suo corpo e ad avvinghiarlo. Era come paralizzato, incapace del più piccolo movimento. Gridò a squarciagola, ma non c'era nessuno che potesse udirlo. Respirava a fatica, il cuore gli impazzì nel petto, la testa gli andò in fiamme, un nuovo urlo gli si strozzò in gola. Gli occhi, quasi, gli saltarono dalle orbite. In preda all'orrore, protese le braccia con la forza che gli restava, ma non trovò nulla di solido cui aggrapparsi. Era dappertutto melma vermiglia e schiumosa. Quella sporca putredine vischiosa, lentamente, lo avvolse fino a soffocarlo. Tutto si fece scuro, fino a diventare buio assoluto, mentre la casa lo inghiottiva. Poi, fu solo silenzio.

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