Incontro con Mario Campanino

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Sono nato a Milano il 9 dicembre del 1967.
Ho cominciato a studiare musica a 8 anni (il violino) ma non mi sono diplomato. A 12 anni mi sono trasferito a Napoli, città di origine dei miei genitori, e al sole di questa sono cresciuto sino ad oggi, salvo alcune pause in cui stavo a Bologna all'Università. Sono laureato al DAMS in discipline della musica. Amo aereoplani, uccelli, pezzi di carta... il volo e tutto ciò che vola. Per questo motivo alle superiori mi sono diplomato in Costruzioni Aeronautiche. Se avessi del tempo libero vorrei ritornare a fare l'aeromodellista. Mi piace anche volare ma soffro di vertigini. Ho cominciato a studiare composizione al Conservatorio e poi direzione di coro, diploma che dovrei prendere alla fine di quest'anno. Adesso lavoricchio un po' come musicologo e un po' come insegnante, dirigo cori polifonici, scrivo su giornali e, se la mia domanda è stata accettata, sono anche pubblicista. In realtà non so ancora di preciso cosa farò in futuro ma mi sento ormai prossimo a diventare grande.

Mario Campanino

Leggi l'intervista che ho fatto a Mario

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La Pioggia
(in cui non si muore in ordine di apparizione)

Odio quella macchinetta fotografica. Enzo insiste nel portarsela dietro, è diventata la sua religione.
Compra rullini su rullini, non guarda più il cielo le montagne gli occhi le conoscenze brevi del viaggio ma si compiace di averle fotografate, pur non sapendo se bene o male, si complimenta con se stesso.
Forse crede di catturare qualcosa, ma è solo luce che impressiona, uno scatto dopo l'altro, esporsi e lasciarsi impressionare, è sempre solo luce, per me è quasi diventata un'ossessione, quel suo sorriso contento dopo ogni fotografia.
Anche a Parigi. Usciamo dalla buca metropolitana di Saint Michel e la luce sembra essere stata divorata, il cielo è di piombo, così pesante che cade dall'alto la pioggia.
Enzo fotografa anche il grigio, Rue Saint Jacques, Pont au Double, non lo ferma nemmeno la delusione di questo primo giorno parigino così bagnato e malsano, scatta con rabbia con delusione ma scatta.
La gente si fa da parte, nei portoni nei negozi nei bar, continua a sorridere non capisco di cosa, però è meglio.
Molti si sigillano in impermeabili di plastica semitrasparente (gambe bianche e forti di giovani tedesche in pantaloncini e scarpe da tennis vanno vigorose riparate dalla pioggia).
Strana specie, quella dei turisti, alla quale non vorrei appartenere.
Noi proseguiamo umidi, a fotografare Notre Dame.
La cattedrale affascina già da lontano. Le due torri ai lati quadrate e severe, enorme costruzione di pietra, incastrata nel cielo grigio sembra una porta chiusa al confine di chissà quale gelida desolazione.
Non guardiamo molto attraverso la pioggia. Siamo subito sotto il grande arco che immette nella navata centrale.
Mille volti scolpiti nella materia osservano deformi: rumorosi bagnati uomini e donne senza armonia, libretti turistici con piantina della città, ragazze turiste con tutti i visi stupidi.
Non piace. Andiamo verso il nero interiore.
Dentro lo spazio è molto più grande che fuori (si sa che non può essere così, sembra). L'umido vi penetra ma l'aria antica assorbe la sensazione reumatica avvertita per strada.
L'oscurità morbida è interrotta a tratti da lampi di luce artificiale.
Guardo tutt'intorno disorientato in quel continuo e frenetico furto di immagini: anche qui, come se ricordare o dimostrare di aver sfiorato un luogo voglia in qualche modo dire conservare qualcosa in più.
Cerco di non fare attenzione alle variazioni violente dei colori e comincio a percepire la forza dell'architettura.
Lo spazio dilaga in ogni direzione; le colonne, altissime, si allargano incontrandosi molto sopra di me e incrociando fili ricurvi di materia.
Osservo la ciclicità degli archi, l'espansione delle navate; avverto l'esplosione del pensiero che sorregge quel tempio pesante del trascendente. Poi di nuovo fuori, a cercare l'ingresso delle torri laterali, fino ai piedi di quella a nord ricade la pioggia.
Dentro si sale a gradini, le mani contro i muri, ci passa accanto un negozio dove vendono la memoria di quel luogo, imitazioni delle forme e delle immagini che ti si vuole destinato a dimenticare.
Si ascoltano voci richiami urla di bambini, passi di adulti contro la pietra dura.
Sopra la pioggia cade immensa. Il cielo è molto più grave che sotto, ancorato agli steli di pietra delle guglie, incuneato nelle orlature contorte, ogni cosa si deforma e anche il vento crolla e tutto sopra e sotto di lui.
Non guardiamo più. Raccogliamo le nostre immagini e sbagliamo l'uscita. Più tardi ci ritroviamo e scendiamo.
Alla fine delle scale l'esterno, la pioggia cade di meno, il suo volo si smorza sulle pieghe di un telo di plastica giallo. Sotto qualcosa rimane adagiato sul marciapiede. Ai bordi del telo si vedono macchie rosse allargate in acqua di pozzanghere.
Cerchiamo di non conservarne l'immagine, come tutti, ma ne rimaniamo impressionati, l'uno e l'altro.
Senza sapere dare un'età, mentre ogni cosa si oscura, priva di luce di movimento di vita, come la bambina che attraverso una finestrina della torre è caduta con la pioggia dal cielo al marciapiede.

Napoli, 29 gennaio 1993

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